Beirut: la storia, i testi, le immagini

 

-                      Ma è straziante, chi è che suona a quest’ora?

-                      È un serbo che abita al piano di sopra, è in casa malato e passa il tempo così, a suonare la tromba.

La scena si svolge ad Amsterdam. Zach Condon, 21 anni, originario del Nuovo Messico così come Nick Castro, altro eclettico musicista emergente, è ospite a casa di suo cugino. C’è qualcosa che lo incuriosisce nella musica balcanica suonata con gli ottoni da quello sfortunato artista serbo. Sfortunato perché non solo è in casa ammalato ma anche perché l’unica lavatrice di quel condominio si trova proprio nel suo appartamento che, secondo turni precisi, è attraversato da vicini di casa trainanti ceste di biancheria. Durante uno di questi turni di lavaggio, Zach ha occasione di fare conoscenza, i due intrattengono lunghi discorsi e ascoltano cd fino alle 6 del mattino, mentre sul tavolo si accumulano bottiglie di birra vuote. “Gulag Orkestar” è nato, si potrebbe dire, in quell’appartamento.

Tornato a Brooklyn, Zach si chiude nella sua camera e inizia a comporre. Una mattina sveglia tutta la casa per cantare una canzone, non poteva farne a meno. È a quel punto che il fratello entra nella sua camera e gli dice:

-                      senti, tu canti come una vedova disperata!

-                      Esattamente - risponde Zach – è proprio quello che voglio fare.

C’è, in “gulag Orkestar”, un suono struggente e straziante che viene dall’est dell’europa: è il suono di quelle che chiamano “orchestre”, un suono gipsy che ha portato per il mondo la nostalgia di una casa lontana, sognata, e il triste vuoto dello sradicamento.

Nel 2006 Zach si trasferisce a Parigi: è lì che nasce il suo secondo album, “The Flying Club Cup”, la cui atmosfera è più sognante e mitteleuropea. C’è in esso la magia di una voce senza tempo e di una musica evocativa. Difficile stabilire legami o cercare quei confronti che la critica ama tanto: quei brani si muovono tra valzeroni alla Jacques Brel (In The Mausoleum) e ballate in stile Françoise Hardy (Cherbourg). Si sente Parigi, la Francia, e la si vede anche, nei video che accompagnano quelle composizioni e da cui è bene lasciarsi accompagnare. 

Prendiamo “Nantes”: la voce di Zach ondeggia ariosa sopra questo valzer gonfio, pieno di sfumature pop e di romanticismo fin de siècle. Lo si vede scendere una scala di un vecchio condominio deserto, in un quartiere industriale. Scende i gradini con lo stesso ritmo della canzone e a ogni piano incontra altri musicisti che si uniscono a lui. La sua voce è trasognata e le sue parole ricordano un tempo che non é più:

-                      Ebbene è passato molto tempo, molto tempo ormai / dal momento in cui ho visto il tuo sorriso

In fondo a questa scala grigia, ritroverà anche la batteria e una sonorità sempre più viscerale, altisonante e trionfale nello stesso tempo. “Sunday smile” è altrettanto intensa, i musicisti si trovano nel cortile interno di un vecchio quartiere, la luce è accecante e la telecamera di Vincent Moon volteggia intorno a Zach, così come gli ottoni, la fisarmonica e l’ukulele:


- le luci si accendono / le luci si spengono / quando le cose non vanno bene /io mi sdraio come un cane che lecca le sue ferite. / Quando mi sento vivo / io provo a immaginare una vita spensierata /un suggestivo mondo dai tramonti mozzafiato

Il violino, l’ukulele e la voce di Zach si incontrano nella debole luce di un sottoscala in “Guyanas sonoras”, poi una porta si apre e si intravedono i fiati, la batteria:


- Hai tutte le preghiere del mio debole cuore / hai le preghiere di tutti. / No, non ero sulle scale di quella chiesa / Il vento nei miei capelli, un diluvio attraverso la mia lacrima.


Il carillon iniziale di “La Banlieu” viene sovrastato da ritmi e sonorità balcaniche pregnanti come mai. I musicisti salgono i gradini di una vecchia casa, solo Zach rimane fuori e con lui il fisarmonicista. Viene acceso un piccolo registratore, il flusso sonoro ci trascina e ci accorgiamo che alle finestre, in alto, tutti i musicisti si affacciano suonando una melodia struggente. Alla fine del brano Zach accende il piccolo registratore e ci lascia soli, ad ascoltare quelle melodie che si ripetono all’infinito.

Ma il canto della “vedova”, il ricordo dell’osservazione di suo fratello, è rimasta impressa nella mente di Zach. Nasce così “Cliquot”, o meglio la “vedova Cliquot” (ricordate lo champagne?) che nel 1805 ha perso il suo amato Francois per una febbre improvvisa. Questa musica è tutta per lei, è un inno vero e proprio , cantato in questo caso da Ed Droste dei Grizzly Bear che per l’occasione si è unito al gruppo col sui viso melanconico che accresce la suggestione del brano. In “The Penalty” invece Zach è inizialmente solo, con la sua voce e l’ukulele, è una voce evocativa dietro la quale sembra di sentire l’eco di un temporale lontano, le vibrazioni si inseguono, trepidanti. Sembra che il cielo si apra sopra la sua voce, poi il gruppo si ricompone, suona all’unisono. Ritroviamo i musicisti in “La fete” mentre attraversano una sala giochi e si fermano davanti a un tavolo da ping-pong: qui, mentre eseguono il brano, si mettono a giocare e il batterista usa una racchetta in sostituzione delle tradizionali bacchette. “In the Mausoleum” è semplicemente splendida, il violino dialoga con le percussioni che si esercitano su qualunque cosa sia loro a tiro, un’anguria compresa:


-                      Viaggi nel tempo per imparare /la tua vita segreta / nel tuo mausoleo. / E Berlino / è così brutta  nella luce del mattino.


“Le dernier verre” (l’ultimo bicchiere) è essenzialmente una composizione per voce e piano che termina con una imponente coralità; Zach riappoggia a un vecchio juke-box e dirige l’orchestra, coi gesti delle mani:


-                      Il rintocco di campane / sette volte / completato in nove / trovo che il mondo si muova lento. / No, ma io / ho imparato da tempo / le tue mani.


Siamo così a Cherbourg, una ballata struggente che Vincent Moon ha voluto registrare in un garage pieno di camion a riposo, deserto. Là il vecchio proprietario stava riparando un motore. Gli chiedono se è possibile suonare un brano all’interno: era lecito attendersi un rifiuto:


-                      Se fate presto, avete a disposizione una mezz’ora, prima che gli altri camion rientrino in garage.


Produttore e regista corrono a perdifiato per raggiungere il gruppo che stava cenando: presto, bisogna fare presto. Ognuno raccoglie le sue cose, una mezz’ora passa solo per preparare gli strumenti e infine, quando ormai i camion aspettano all’esterno della rimessa, i musicisti eseguono “Cherbourg”. Si finisce in una chiesa per la registrazione del brano omonimo “The Flying Club Cut”. Cantiamo tutti, nel coro ci sono anch’io.