IL VIAGGIO DI SAHAR

Domenica 5 Agosto 2007: incontro con Anouar Brahem

 “C’est bien pour toi, Agostino, nous donner un rendez-vous aux heures 15,30, près du cinéma Rialto?, “C’est parfait pour moi, à bientot”. Puntuale, Anouar Brahem si presenta in compagnia del suo produttore: è qui a Locarno, in Svizzera, per presentare “Mots après la guerre”, un film documentario fatto di interviste a personaggi della cultura e della politica con l’intento di raccogliere gli stati d’animo e le atmosfere successive all’intervento armato israeliano in Libano nel 2006. Avrei voluto chiedergli cosa spinge un musicista e compositore affermato a fare un film e presentarsi a un festival internazionale del cinema, ma la risposta di fatto esisteva già: nello scorrere delle immagini infatti, nelle testimonianze che si susseguivano, nella commozione che era nelle parole e negli sguardi, nei silenzi soprattutto, c’era un tempo dilatato che sembrava sovrapporsi con naturalezza alle sue composizioni. Sarebbe improprio parlare di “colonna sonora”: questa definizione restituisce l’dea che le immagini possano trovare un appoggio, un sostegno, nel suono, invece nel film di Brahem non è possibile separare la musica né dalle rappresentazioni di distruzione delle città, né dai volti macerati di coloro che hanno accettato di sottoporsi all'intervista.

 

Non è la prima volta che Anouar Brahem compone per il cinema e il teatro, molte sono le musiche originali per film da lui scritte, si potrebbe ricordare la collaborazione con il coreografo Maurice Béjart per il balletto “Thalassa Mare Nostrum”. Molte di queste composizioni sono poi state recuperate e rielaborate per il CD “Khomsa” (ECM, 1995), dopo la cui pubblicazione lui stesso aveva dichiarato di aver voluto “liberare la musica dalle catene dell’immagine”. Gli chiedo come percepisca il legame tra suoni e immagini e, non ricevendo risposta, rimango un po’ frastornato. Forse lui si accorge di questo imbarazzo: siamo abituati a intervistatori che incalzano con domande stringenti l’intervistato, lo chiudono in un angolo, cercano di carpirgli un qualche segreto. E’ come se volesse farmi capire che il pensiero e la parola necessitano di altri tempi rispetto a quelli a noi consueti: mi risponde dopo un po’ infatti e mi parla del tempo, del legame forte che sente tra la sua musica e la “durata” dell’immagine. Con ciò non intende dire, e ci tiene a precisarlo, che la durata dipende dalla fissità dell’immagine ma dal tempo, da tutto il tempo necessario della sua persistenza, della sedimentazione: se non hanno il tempo di accamparsi nei nostri occhi e nella nostra mente, le immagini volano via, le figure si fanno indistinte e di esse non rimane traccia. Ci rimangono delle ombre, parvenze diafane. Ascoltandolo si capiscono molte cose a cominciare dal motivo per cui, prima ancora di sederci ai tavoli del bar e di ordinare una birra, lui mi abbia chiesto di quanto tempo avevo bisogno. Ma capisco anche ciò che avevo visto nel suo film: la rappresentazione dei quartieri distrutti, l’apparente senso di immobilismo, i leggeri spostamenti dell’inquadratura, i movimenti di indistinti personaggi sullo sfondo. Tutto questo penetra lentamente dentro di noi. Non ci sono stacchi se non tra i volti dei personaggi e gli edifici distrutti: ma in fondo è la stessa cosa, gli occhi riflettono polvere e lamiere contorte. Il film è un avvolgente continuum. Verrebbe da parlare di “lentezza” ma chi conosce e apprezza la musica di Anouar Brahem sa che "lentezza" e "velocità" sono concetti assolutamente relativi.

 

Per chi non conoscesse questo compositore, nato nella Médina di Tunisi nell’Ottobre del 1957, potremmo parlare della sua capacità di far suonare, da solista, uno strumento millenario nella cultura araba: il liuto o, meglio dire, l’oud. Suo padre, mi racconta, non ha fatto salti di gioia all’idea di avere un figlio musicista, tuttavia era una persona molto sensibile: era presente il giorno del suo primo concerto e, dopo averlo ascoltato, gli si è avvicinato con occhi lucidi per la commozione. Anouar ricorda bene anche il tempo degli studi sullo strumento, le giornate a casa del maestro Ali Sriti: “a lui devo molto, mi ha insegnato tutto, a cominciare dal Taqsim". Il Taqsim nella musica araba è una forma tradizionale di improvvisazione e, nello stesso tempo, una "scuola di libertà". La definizione incuriosisce: si sarebbe potuto pensare alla musica, nella sua accezione più ampia, come espressione di libertà e creatività, ma non all'esistenza di una vera e propria tecnica che, come un germe, agisce dall'interno, travalicando gli schemi e generando nuove idee. Il Taqsim è stato molto importante per la formazione di Brahem perché da quei primi esperimenti è nato il desiderio di andare oltre la tradizione araba, di avvicinare sonorità di altre regioni, per es. India e Iran, di integrare elementi jazz nella sua musica, di restituire all'oud piena dignità di strumento solista. Questo suo percorso, questa capacità di scrivere una musica che supera i confini regionali, si sviluppa dunque nella continuità e in questo senso egli desidera sottolineare come "non esista alcun conflitto tra tradizione e modernità". Non è una affermazione scontata: prima di tutto perché, in ogni parte del mondo, il superamento di una tradizione assume ancor oggi i contorni del sacrilegio e inoltre perché, fin dagli albori dell'umanità, l'idea di "libertà" ha sempre creato una certa preoccupazione. E in questo senso la musica non fa certamente eccezione, occorrono un orecchio e una mente davvero ben disposti per accogliere una proposta che superi schemi già consolidati.

 

Ma per approfondire, dice, serve riflettere sul significato del superamento della tradizione e mi parla del sul suo modo di comporre: "comincio da un semplice fraseggio, un motivo che sviluppo lentamente e gradualmente espando, ci sono idee che nascono spontaneamente, in qualsiasi luogo e nei momenti più impensati, ma che poi devo trovare il tempo e la tranquillità di elaborare e sviluppare compiutamente". Anche quando Brahem ritorna verso la tradizione araba, ad es. con "Rabeb" (1989) e "Andalousiat" (1990), lo fa con formazioni ristrette (in trio ad es. o "takht", che è la forma originale dell'orchestra tradizionale) nelle quali ogni musicista svolge il ruolo di solista e di improvvisatore: è questa la strada per restituire lo spirito, la raffinatezza delle variazioni e l'intimità della musica araba. I puristi, per usare un eufemismo, sarebbero diffidenti: alla luce di un giorno d'estate e al vento, che spazza la polvere, prediligono il buio di una cantina in cui conservare le cose. Ma l'ispirazione per Brahem non separa il presente dal passato, la luce dal buio, è come un albero che cresce verso il sole allargando verso esso i suoi rami, sviluppando nello stesso tempo le sue radici.

 

Gli esordi di questo artista, proprio per il carico di novità della sua arte, non sono stati facili e il trasferimento nel 1981 a Parigi, una città culturalmente vivace e cosmopolita, corrisponde al tentativo di Brahem di trovare quelle collaborazioni necessarie ad alimentare il suo spirito creativo: la sua carriera sarà, proprio per tale motivo, costellata da incontri importanti quali ad es. quelli con Jan Garbarek, Dave Holland, John Surman, Barbarose Erkose. La svolta forse più importante per la sua carriera è avvenuta nel 1990 quando, senza indugi, ha affrontato un impegnativo tour in Stati Uniti e Canada: è al suo ritorno che viene contattato da Manfred Eicher, produttore e fondatore della casa discografica ECM. Nascerà da quell'incontro una lunga collaborazione che porterà Anouar Brahem alla pubblicazione di numerosi CD tra i quali vanno ricordati “Thimar”, “Astrakan Café” e il recente “Le Voyage de Sahar” (ECM 2006), dove Brahem è accompagnato da François Couturier al pianoforte e Jean-Luis Matinier alla fisarmonica. Si tratta della stessa formazione del lavoro precedente di Brahem “Le Pas Du Chat Noir” (Ecm 2002), un incontro musicale apparentemente anomalo che oggi ci dona uno splendido disco, forse uno dei più belli, sicuramente il più ipnotico.