“C’est bien pour toi, Agostino, nous donner un
rendez-vous aux heures 15,30, près du cinéma Rialto?, “C’est parfait pour moi,
à bientot”. Puntuale, Anouar Brahem si presenta in compagnia del suo
produttore: è qui a Locarno, in Svizzera, per presentare “Mots après la
guerre”, un film documentario fatto di interviste a personaggi della cultura e
della politica con l’intento di raccogliere gli stati d’animo e le atmosfere
successive all’intervento armato israeliano in Libano nel 2006. Avrei voluto
chiedergli cosa spinge un musicista e compositore affermato a fare un film e
presentarsi a un festival internazionale del cinema, ma la risposta di fatto
esisteva già: nello scorrere delle immagini infatti, nelle testimonianze che si
susseguivano, nella commozione che era nelle parole e negli sguardi, nei
silenzi soprattutto, c’era un tempo dilatato che sembrava sovrapporsi con
naturalezza alle sue composizioni. Sarebbe improprio parlare di “colonna sonora”:
questa definizione restituisce l’dea che le immagini possano trovare un
appoggio, un sostegno, nel suono, invece nel film di Brahem non è possibile
separare la musica né dalle rappresentazioni di distruzione delle città, né dai
volti macerati di coloro che hanno accettato di sottoporsi all'intervista.
Non è la prima volta
che Anouar Brahem compone per il cinema e il teatro, molte sono le musiche
originali per film da lui scritte, si potrebbe ricordare la collaborazione con
il coreografo Maurice Béjart per il balletto “Thalassa Mare Nostrum”. Molte di
queste composizioni sono poi state recuperate e rielaborate per il CD “Khomsa”
(ECM, 1995), dopo la cui pubblicazione lui stesso aveva dichiarato di aver
voluto “liberare la musica dalle catene dell’immagine”. Gli chiedo come
percepisca il legame tra suoni e immagini e, non ricevendo risposta, rimango un
po’ frastornato. Forse lui si accorge di questo imbarazzo: siamo abituati a
intervistatori che incalzano con domande stringenti l’intervistato, lo chiudono
in un angolo, cercano di carpirgli un qualche segreto. E’ come se volesse farmi
capire che il pensiero e la parola necessitano di altri tempi rispetto a quelli
a noi consueti: mi risponde dopo un po’ infatti e mi parla del tempo, del
legame forte che sente tra la sua musica e la “durata” dell’immagine. Con ciò
non intende dire, e ci tiene a precisarlo, che la durata dipende dalla fissità
dell’immagine ma dal tempo, da tutto il tempo necessario della sua persistenza,
della sedimentazione: se non hanno il tempo di accamparsi nei nostri occhi e
nella nostra mente, le immagini volano via, le figure si fanno indistinte e di
esse non rimane traccia. Ci rimangono delle ombre, parvenze diafane.
Ascoltandolo si capiscono molte cose a cominciare dal motivo per cui, prima
ancora di sederci ai tavoli del bar e di ordinare una birra, lui mi abbia
chiesto di quanto tempo avevo bisogno. Ma capisco anche ciò che avevo visto nel
suo film: la rappresentazione dei quartieri distrutti, l’apparente senso di
immobilismo, i leggeri spostamenti dell’inquadratura, i movimenti di indistinti
personaggi sullo sfondo. Tutto questo penetra lentamente dentro di noi. Non ci
sono stacchi se non tra i volti dei personaggi e gli edifici distrutti: ma in
fondo è la stessa cosa, gli occhi riflettono polvere e lamiere contorte. Il
film è un avvolgente continuum. Verrebbe da parlare di “lentezza” ma chi
conosce e apprezza la musica di Anouar Brahem sa che "lentezza" e
"velocità" sono concetti assolutamente relativi.
Per chi non
conoscesse questo compositore, nato nella Médina di Tunisi nell’Ottobre del
1957, potremmo parlare della sua capacità di far suonare, da solista, uno
strumento millenario nella cultura araba: il liuto o, meglio dire, l’oud. Suo
padre, mi racconta, non ha fatto salti di gioia all’idea di avere un figlio
musicista, tuttavia era una persona molto sensibile: era presente il giorno del
suo primo concerto e, dopo averlo ascoltato, gli si è avvicinato con occhi
lucidi per la commozione. Anouar ricorda bene anche il tempo degli studi sullo
strumento, le giornate a casa del maestro Ali Sriti: “a lui devo molto, mi ha
insegnato tutto, a cominciare dal Taqsim". Il Taqsim nella musica araba è
una forma tradizionale di improvvisazione e, nello stesso tempo, una
"scuola di libertà". La definizione incuriosisce: si sarebbe potuto
pensare alla musica, nella sua accezione più ampia, come espressione di libertà
e creatività, ma non all'esistenza di una vera e propria tecnica che, come un
germe, agisce dall'interno, travalicando gli schemi e generando nuove idee. Il
Taqsim è stato molto importante per la formazione di Brahem perché da quei
primi esperimenti è nato il desiderio di andare oltre la tradizione araba, di
avvicinare sonorità di altre regioni, per es. India e Iran, di integrare elementi
jazz nella sua musica, di restituire all'oud piena dignità di strumento
solista. Questo suo percorso, questa capacità di scrivere una musica che supera
i confini regionali, si sviluppa dunque nella continuità e in questo senso egli
desidera sottolineare come "non esista alcun conflitto tra tradizione e
modernità". Non è una affermazione scontata: prima di tutto perché, in
ogni parte del mondo, il superamento di una tradizione assume ancor oggi i
contorni del sacrilegio e inoltre perché, fin dagli albori dell'umanità, l'idea
di "libertà" ha sempre creato una certa preoccupazione. E in questo
senso la musica non fa certamente eccezione, occorrono un orecchio e una mente
davvero ben disposti per accogliere una proposta che superi schemi già consolidati.
Ma per approfondire,
dice, serve riflettere sul significato del superamento della tradizione e mi
parla del sul suo modo di comporre: "comincio da un semplice fraseggio, un
motivo che sviluppo lentamente e gradualmente espando, ci sono idee che nascono
spontaneamente, in qualsiasi luogo e nei momenti più impensati, ma che poi devo
trovare il tempo e la tranquillità di elaborare e sviluppare
compiutamente". Anche quando Brahem ritorna verso la tradizione araba, ad
es. con "Rabeb" (1989) e "Andalousiat" (1990), lo fa con
formazioni ristrette (in trio ad es. o "takht", che è la forma
originale dell'orchestra tradizionale) nelle quali ogni musicista svolge il
ruolo di solista e di improvvisatore: è questa la strada per restituire lo
spirito, la raffinatezza delle variazioni e l'intimità della musica araba. I
puristi, per usare un eufemismo, sarebbero diffidenti: alla luce di un giorno
d'estate e al vento, che spazza la polvere, prediligono il buio di una cantina
in cui conservare le cose. Ma l'ispirazione per Brahem non separa il presente
dal passato, la luce dal buio, è come un albero che cresce verso il sole
allargando verso esso i suoi rami, sviluppando nello stesso tempo le sue
radici.
Gli esordi di questo
artista, proprio per il carico di novità della sua arte, non sono stati facili
e il trasferimento nel 1981 a Parigi, una città culturalmente vivace e
cosmopolita, corrisponde al tentativo di Brahem di trovare quelle
collaborazioni necessarie ad alimentare il suo spirito creativo: la sua
carriera sarà, proprio per tale motivo, costellata da incontri importanti quali
ad es. quelli con Jan Garbarek, Dave Holland, John Surman, Barbarose Erkose. La
svolta forse più importante per la sua carriera è avvenuta nel 1990 quando,
senza indugi, ha affrontato un impegnativo tour in Stati Uniti e Canada: è al
suo ritorno che viene contattato da Manfred Eicher, produttore e fondatore
della casa discografica ECM. Nascerà da quell'incontro una lunga collaborazione
che porterà Anouar Brahem alla pubblicazione di numerosi CD tra i quali vanno
ricordati “Thimar”, “Astrakan Café” e il recente “Le Voyage de Sahar” (ECM
2006), dove Brahem è accompagnato da François Couturier al pianoforte e
Jean-Luis Matinier alla fisarmonica. Si tratta della stessa formazione del
lavoro precedente di Brahem “Le Pas Du Chat Noir” (Ecm 2002), un incontro
musicale apparentemente anomalo che oggi ci dona uno splendido disco, forse uno
dei più belli, sicuramente il più ipnotico.