An evening with… Dando Shaft: storia di un gruppo “quasi” dimenticato

 

Genova, negli anni settanta, era una città che forniva alcuni punti di riferimento precisi ai giovani che, nel tardo pomeriggio, percorrevano le vie del centro. Uno di questi punti era Disco Club. Non era questo semplicemente un negozio dove si andava per acquistare dischi ma era, anche e soprattutto, un luogo d’incontro. Era facile trovare amici e parlare di novità discografiche che, in quel periodo, erano frequentissime ed esplosive.

Ricordo con chiarezza la sera in cui un amico mi chiese se avessi ascoltato “An Evening with…”, il primo album firmato Dando Shaft. No, risposi, è bravo? Che genere di musica compone? La risposta fu un sorriso a metà tra lo scherno e l’ironia. La mia figuraccia consisteva nel fatto che Dando Shaft non era un artista, come avevo erroneamente supposto, ma una band di cinque elementi. Mi aveva ingannato quello che pareva un nome seguito dal cognome ma che invece era il titolo che lo scrittore  Don Calhoon aveva dato a un suo romanzo “noir”: in questo libro si raccontava di un personaggio assai particolare, Dando Shaft per l’appunto, che aspirava a diventare il “milionario della gente”. Egli aveva pubblicato un annuncio sul New York Times invitando tutti i suoi concittadini a inviargli dei soldi e ad aiutarlo a diventare un riccone. In cambio, diceva nella richiesta, lui avrebbe rappresentato un popolo, sarebbe stato il milionario di tutti e tutti avrebbero avuto il diritto di avere una parte della sua ricchezza. A Martin Jenkins, chitarrista, mandolinista e violinista del gruppo, l’idea era parsa a dir poco geniale e, da qui, la decisione di scegliere il nome di quel personaggio per il gruppo. In fondo, l’idea di appartenere a tutti, di “mettere in comune” in questo caso un’esperienza musicale, rientrava tra quegli ideali comunitari molto in voga nel 1968, l’anno in cui il gruppo si era formato.

In quell’anno la formazione poteva definirsi una “five-piece folk-band” essendo composta da Kevin Dempsey (chitarra acustica e voce), Martin Jenkins (voce, mandolino, mandoloncello, flauto e violino), Ted Kay (tablas e percussioni), Roger Bullen (basso) e Dave Cooper (chitarra acustica e voce). Jenkins, nato a Solhiul, un paesino vicino a Birmingham, è un personaggio singolare ed estroso: nel 1963 si era avventurato in un tour in Germania con una band assolutamente improvvisata e con risultati disastrosi. Al ritorno distrusse o vendette tutta la sua attrezzatura per racimolare i soldi, acquistare una buona chitarra acustica ed entrare  far parte dei The Cockade, una band attiva sulla scena di Coventry. Lì conobbe il chitarrista Kevin Dempsey che all’epoca, seguendo le orme del padre, era un percussionista alquanto maldestro. Proprio nei Dando Shaft egli suonò per la prima volta la chitarra. Il gruppo si formò quando Jenkins e Dempsey incontrarono il percussionista Ted Kay e il cantautore Dave Cooper.

Il primo album “An evening with Dando Shaft” uscì nel 1970. La produzione fu affidata a Miki Dallon dell’etichetta Youngblood: il merito dell’uscita di questo primo album è dovuto in gran parte al loro primo manager Sandy Glellon che si diede da fare tantissimo per attrarre i discografici alle prime esibizioni del gruppo a Coventry. Ma vale la pena di raccontare la singolare situazione che ha permesso al gruppo di stipulare il contratto con quelli della Youngblood. I musicisti erano scesi a Londra con l’intenzione di registrare un singolo nei PYE Studios ma la sala era già prenotata da Johnny Silvo, un musicista sulla breccia in quegli anni (aveva anche inciso un album con Sandy Denny). Con una mossa spregiudicata, sapendo che Miki Dillon sarebbe quel giorno passato dagli studi, Glellon riuscì a soffiare la sala a Johnny Silvo: fu così che Dillon rimase favorevolmente impressionato e propose ai Dando Shaft di pubblicare il primo album. La registrazione avvenne negli stessi PYE Studios in neppure mezza giornata di lavoro: i musicisti si sedettero in semicerchio con un microfono ambientale al centro. Il tutto perfettamente acustico. A riascoltarla oggi, quella registrazione sembra fatta all’aperto, con un rumore di pioggia sullo sfondo (del resto, “Rain” è il pezzo iniziale del disco). La sensazione è che la band non avesse fatto ancora scelte precise, il tutto appare alquanto acerbo, le composizioni hanno suggestioni diverse e, tra queste, si nota senz’altro la tradizione inglese, che spicca in “September wine” e “Drops of brandy”.

Il disco fu accompagnato dal singolo “Cold Win / Cat Song (Youngblood YB 1012). Negli States, in seguito a recensioni abbastanza lusinghiere pubblicate dalle riviste Billboard e Cashbox, fu addirittura la Decca a curare la stampa americana.

Dopo questo debutto, il gruppo riceve un’offerta da parte della RCA che voleva lanciare in quegli anni sul mercato una nuova etichetta “progressive”: la Neon. I componenti della band accettarono con entusiasmo. In quell’anno, eravamo nel 1970, si sentiva anche la mancanza di una voce femminile che potesse dare una più ampia gamma di registri alle composizioni: fu così che entrò nella band Polly Bolton, cantautrice proveniente da Leamington Spa. Sicuramente Polly aveva una voce molto espressiva. Non era una sconosciuta: prima di entrare nei Dando Shaft aveva già collaborato con June Tabor e col bassista Roger Bullen che era anche colui che l’aveva proposta e introdotta nel gruppo. Ma, come si sa, le scelte vanno bene ponderate e Kevin Dempsey venne incaricato di fare qualche audizione in occasione dei numerosi festival britannici. La prima cantante che colpì la sensibilità di Dempsey era l’allora sconosciuta Linda Peters, una scozzese di Glasgow che aveva però già diversi impegni e che finirà per sposare Richard Thompson, col quale avrà anche un lungo sodalizio artistico. Sfumata l’ipotesi Linda Peters, lo sfiduciato musicista partecipò al Sidmouth Folk Festival e qui rimase abbagliato da Polly Bolton. La ragazza inizialmente non era molto entusiasta di entrare a far per te di un gruppo musicale le cui prospettive non erano poi così certe e mirabolanti. Voleva studiare zoologia e in particolare i gorilla: i musicisti della band fecero non poca fatica per convincerla e lei si arrese all’idea solo quando le dimostrarono che la fisionomia del chitarrista Dave Cooper non poteva essere inferiore a nessuno scimpanzé del continente. Comunque, fu durante l’apprendistato coi Dando Shaft che riuscì a conseguire il diploma di secondo grado in zoologia.

Il 1970 e il 1971 furono anni di grande entusiasmo e creatività. In occasione di un concerto della Southern Comfort Band, Iain Matthews presentò al gruppo i manager Howard e Blakely che decisero di interessarsi e promuovere l’attività dei Dando Shaft. Nel frattempo i musicisti si trasferiscono con le loro famiglie in una grande casa di Ealing, in modo da poter lavorare al meglio per mettere a punto il repertorio per un nuovo album. Le occasioni per suonare dal vivo non mancavano: Martin Jenkins ricorda le serate alla Roundhouse di Londra quando, soprattutto nel periodo natalizio, ci si poteva esibire sullo stesso palco degli Skid Crow di Gary Moore, della Brian Auger Oblivion Express, dei Vinegar Joe (con Robert Palmer) e degli East of Eden. I Dando Shaft furono apprezzati nonostante suonassero con un impianto di appena 100 watt.

Nel 1971 uscì per l’etichetta Neon il secondo album omonimo: “Dando Shaft”. Molto belle e curata è la copertina “gatefold” che presenta un’immagina singolare: una giostra, con i suoi cavalli di legno, completamente distrutta. Nel disco ci sono alcune belle composizioni di Polly Bolton, in particolare “Whispering Ned”, una canzone sul tema della droga alquanto ironica, ma in generale è evidente il sovrapporsi di influenze diverse, dalla tradizione inglese alle sonorità dell’est europeo. Nel complesso il disco è buono, probabilmente il migliore, frutto di un lavoro attento e di scrupolosi arrangiamenti. Lo stile di Martin Jenkins, nella sua originalità, si nota, eccome: è lui a improntare le sonorità e a curare gli arrangiamenti.

Il periodo fu intenso anche per le apparizioni sui programmi della BBC, tra cui le John Peel Sessions, la cui sigla iniziale era dei Fairport Convention, mentre quella di chiusura proprio dei Dando Shaft. In generale il gruppo eseguì circa 60 pezzi originali durante i BBC broadcasts.

Nel 1972 uscì per la RCA il terzo album “Lantaloon”, preceduto dal singolo “Sun Clog Dance / This Gift”. La strada seguita è quella del secondo disco ma in questo caso sembra che la band abbia una certa crisi creativa, le composizioni si susseguono senza brillantezza: il disco non si può annoverare tra quelli memorabili. Il successo in effetti fu relativo, nonostante il notevole battage pubblicitario con cui era stato annunciato. Fu in seguito a questa delusione che il gruppo si sciolse. Polly Bolton lavorò temporaneamente in un pub, poi formò un duo con Kevin Dempsey e infine decise di partire per gli states. Martin Jenkins entrò invece a far parte degli Hedgehog Pie, gruppo col quale incise due album (“Hedgehog Pie” e “The Green Lady”)  per la Rubber Records.

Proprio per la Rubber uscì nel 1978 “Kingdom”, un nuovo disco dei Dando Shaft. La sorpresa fu grande. Era successo che un anno prima il gruppo aveva deciso di riunirsi per dare vita a un nuovo progetto, per quanto dagli obiettivi un po’ incerti. L’album si arricchì della presenza di alcuni ospiti illustri, tra i quali Rod Clements dei Lindisfarne e il leggendario bassista dei Pentangle Danny Thompson. Ma tutti i componenti della band avevano ormai una propria carriera e progetti personali definiti: “Kingdom” fu così una luce che, come un lampo, s’accende per un istante prima di spegnersi. Peccato. Peccato perché con i gruppi e i loro dischi instauriamo, come ascoltatori, un legame affettivo, fino a desiderare che un’esperienza artistica possa durare in eterno. Ma ciò, razionalmente, non é possibile e rimaniamo coi nostri sogni.

La carriera di Martin Jenkins fu molto densa. Martin era forse il più originale tra i musicisti dei Dando Shaft e possedeva uno stile particolarissimo. Io lo amavo molto: un giorno, entrato da Disco Club per sfogliare le novità, vidi un disco tutto suo che mi guardava e che acquistai: si trattava di “Carry Your Smile” (Oblivion, 1984). Tornai a casa soddisfatto come tutte le volte che, prima ancora di averlo ascoltato, sentivo di avere con me qualcosa di importante. E quel disco era effettivamente e affettivamente un disco importante, lo ascolto ancor oggi in certe occasioni. Martin era accompagnato da Kevin Dempsey in quell’album, la collaborazione dei due, iniziata nei Dando Shaft, continuava.

Jenkins dopo lo scioglimento del gruppo era entrato a far parte dei Plainsong, una formazione che comprendeva Iain Mathhews, Andy Roberts, Andy Richards e Bob Ronga: con loro incise il primo album “In Search of Amelia Earheart” che uscì nel 1976. Era l’anno in cui entrò a far parte della band del chitarrista, ex Pentangle, Bert Jansch, insieme al  bassista Nigel Portman Smith che aveva suonato nei Magna Carta e con gli stessi Pentangle. Si chiamarono “Bert Jansch Conundrum”. Fu una collaborazione che durò cinque anni circa e che portò alla pubblicazione di “Thirteen Down” (Kicking Mule, 1981), un album in cui Jenkins svolse un ruolo importante: era autore degli arrangiamenti e suonava rispettivamente, violino, mandolino, mandoloncello, flauto. Di quel periodo rimane memorabile un tour scandinavo di cui si sono perse tutte le registrazioni ma rimangono, per fortuna, quelle di un tour giapponese di Jansch e Jenkins in duo. “Live At La Foret” (Muskrat, 2006).

Un periodo molto creativo fu però quello dei Whippersnapper, un gruppo acustico nel quale Martin Jenkins ritrovò Kevin Dempsey e del quale facevano parte Chris Lesile (oggi alfiere dei Fairport Convention) e il leggendario violinista Dave Swarbrick. Fu proprio quest’ultimo ad alzare per primo la cornetta, chiamò Martin, gli propose questo nuovo gruppo: difficile dire di no a una simile proposta. Il gruppo pubblicò ben quattro album tra il 1984  e il 1989, poi Swarbrick decise di iniziare una carriera da solista, si ammalò, rischiò la vita per un enfisema polmonare al punto che un giornale inglese, per un equivoco, pubblicò la notizia del suo decesso. Ma fu operato e ritornò a nuova vita come Lazzaro e oggi, questa è storia recente, ha deciso di formare un nuovo gruppo dal nome emblematico: “Swarb’s Lazarus”. Insieme a lui, ancora una volta, Kevin Dempsey, oltre al “fairport” Martin Allcock. Li ho visti due mesi fa, siamo nel Giugno del 2007, nel cortile di un vecchio palazzo nobiliare, poco lontano da Bergamo, in una serata fredda ma limpidissima. Avevo la sensazione di avere di fronte un pezzo di storia, percepire un tempo che non passa è sempre inebriante, dà alla testa, gli eroi sono ancora in campo. Dempsey è completamente calvo, difficile riconoscerlo rispetto alle copertine dei Dando Shaft, quando portava capelli lunghissimi. A Swarbrick mi sono avvicinato come un ragazzino, per un autografo sul suo primo vinile, datato 1976.

Di Kevin Dempsey si potrebbe dire delle sue grandi doti di chitarrista, ha collaborato davvero con molti artisti tra cui, oltre a quelli già citati, occorre nominare Percy Sledge, le Marvelettes, Alice Coltrane. Nel 1987 pubblicò il suo disco solista "The Cry of Love", con Danny Thompson, Polly Bolton, Chris Leslie e Paul Dunmall. Gli anni Novanta lo vedono produrre i dischi di vari artisti, scrivere colonne sonore per il cinema ed esibirsi coi vecchi amici: dopo il tour del 2004 con Mary Black, Kevin si unì alla band Uiscedwr, con cui si esibisce ancora oggi nei concerti. Di loro è da poco uscito il nuovo album, “Circe”. È anche stato in tour con Peter Knight (Steeleye Span e Feast Of Fiddles) e Tom Leary (Feast Of Fiddles), così come con Tanna e Joe Broughton. Vive a Coventry con la moglie Jill, disegnatrice di giardini.

Recentemente la RPM, una sezione della Cherry Records Ltd., ha pubblicato in un unico cofanetto I primi tre LP dei Dando Shaft che sono distribuiti proprio in Italia, dai toscani della Abraxas. Quando ho rimesso sul piatto “An Evening with…” il suono è uscito limpido dalle casse, mi sembrato di essere in quello studio, loro seduti in semicerchio. Poi hanno attaccato “Rain”.